«La felicità? Nel momento in cui pensi di averla raggiunta, già non ce l’hai più. È uno stato d’animo momentaneo. La felicità per me? Ho capito cosa fosse vedendo mio nonno felice quando realizzava cose spettacolari con le sue mani prodigiose» . È di poche parole – semplici e allo stesso tempo dirette, immediate – Paolo Crepet, psichiatra torinese classe 1951 e prolifico autore, in libreria col suo ultimo volume “Mordere il cielo” edito da Mondadori. «Viviamo in un mondo che ci spinge a credere che le uniche modalità plausibili per sopravvivere siano la negazione e la paura. Solo che la prima ci condanna all’indifferenza, la seconda ci paralizza. Ai giovani insegniamo a rimandare il momento di fare i conti con la vita vera. Li condanniamo a crescere fragili e spaesati. Rivendichiamo una scuola senza voti, riscriviamo per loro fiabe in nome del politicamente corretto, privandoli della possibilità di far maturare le loro emozioni. Ma le nostre emozioni vanno allenate ogni giorno», scrive Crepet. Nella giornata internazionale della felicità – istituita dall’assemblea generale delle Nazioni Unite e che si celebra in tutto il mondo il 20 marzo di ogni anno, ne abbiamo già scritto qui – lo raggiungo telefonicamente mentre è in Calabria, in una delle tante tappe teatrali del suo tour sold-out ovunque e frequentatissimo dai giovani. «Come lavoro principale oggi ho scelto di fare psicoterapia corale e vado nei teatri e li trovo sempre pieni. Quelle migliaia di persone raccontano di un fenomeno sociale. Tra loro ci sono molti giovani che cercano qualcosa da qualcuno che li stimoli e che non li faccia addormentare», dice Crepet.
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Partiamo dai giovani.
Nel loro credo che ci sia una tendenza ad annacquare le emozioni, a neutralizzarle. Va stimolata l’emotività, un certo modo di volersi bene.
Tira spesso in ballo i genitori.
Come i professori si lamentano di tutto. Vivono una connessione permanente e una mancanza di attenzione.
Si parla sempre più di salute mentale. È una buona notizia?
C’è un’enfasi anomala su questi temi che portano a sottolineare questo aspetto come se i giovani vogliano dire essere malati. Piuttosto vuol dire essere fragili. Bisogna ascoltare questa insicurezza e comprendere questa fragilità, ma non va gestita come diagnosi. Semmai è un marketing dell’ansia che dà lavoro a tutti i professionisti che popolano le scuole. Io li definisco una rete di santoni di vario genere. Nessuno si ribella a tutto questo ed è incredibile.
Quindi cosa fare?
Capire che mio figlio è semplicemente un ragazzo che ha sedici anni e deve avere maggiore libertà di vivere le emozioni. E che dovrebbe imparare a essere malinconico, che è uno stato meraviglioso della vita, ben lontano dalla depressione.

Cosa pensa dello smartphone e dei social che contiene?
L’uso dello smartphone andrebbe vietato per legge fino ai 18 anni, ossia per tutto il periodo della formazione. Si diventa più intelligenti senza cellulare. Oggi se affido ad un ragazzo una ricerca su Beethoven, lui ci mette tre secondi a farla perché interroga Google e l’intelligenza artificiale. Invece vorrei che aprisse i libri ei vocabolari e spegnesse il telefonino.
Ma come si fa?
Se l’Europa potrebbe farlo, regolamentando anche in modo più rigido rispetto a quanto ha fatto l’Australia.
Vuoi combattere le grandi aziende tecnologiche?
Viviamo un atteggiamento di costante genuflessione nei confronti delle grandi aziende digitali tecnologiche, ma se affermi questo vieni costantemente tacciato di passatista o boomer. Il nemico è nello smartphone e ce lo abbiamo sempre tra le mani.

È un tema di socialità mancata?
In passato nel contatto tra persona e macchina c’erano realtà che mediavano la relazione e che preservavano la socialità. Lo scrissi già dieci anni fa nel mio libro “Baciami senza rete” e tutti all’epoca mi definito hanno pessimista, mentre ora ora mi danno ragione. Lo smartphone è un cambiamento antropologico che contribuisce a far avvicinare edicole e biblioteche. Quando ne prenderemo coscienza sarà troppo tardi.