Un calo prezzi di oltre il 50% per arance, pomodori e peperoni. Ma sugli scaffali il costo per i consumatori rimane invariato. Così deflazione e clima mandano a picco interi settori agricoli
«Oggi gli agricoltori devono vendere 3 litri di latte per bersi un caffè». L’ennesima denuncia viene da Coldiretti che analizza i dati Istat sull’inflazione. Ad aprile scendono i prezzi di molti prodotti nelle campagne italiane. A rimetterci sono solo i produttori visto che sugli scaffali i consumatori trovano i prezzi invariati. Le percentuali sono a due cifre: -24%per il grano duro, -34%per il latte, –48%per i pomodori e addirittura -57% e -54% per arance e peperoni.
Tra deflazione e climate change
I fattori che generano questa tendenza al ribasso sono diversi. Il primo è l’anticipo dei calendari di maturazione: il cambiamento del clima mondiale incide non poco sulla produzione agricola. E fa anticipare il raccolto per molte coltivazioni. L’inverno appena trascorso è stato considerato il più caldo di sempre e ha portato sui banchi di frutta e verdura in anticipo di quasi un mese le fave. La vendita precoce di alcuni ortaggi o frutti fuori stagione provoca un accavallamento delle vendite e una diminuzione dei prezzi per un eccesso di offerta. Per non parlare poi del fatto che frutti già maturi molto prima del loro periodo possono essere facilmente distrutti da eventi climatici imprevedibili, più rari in primavera. A farne le spese, ancora una volta, gli agricoltori che corrono il rischio di trovarsi con il raccolto distrutto molto prima del tempo.
Importazioni e made in Italy
I prezzi subiscono la pressione anche delle importazioni dall’estero di prodotti che hanno contribuito a creare l’immagine del made in Italy. Ultimo in ordine di tempo il caso dell’abbattimento della tassa sull’ingresso di olio tunisino in Italia. In realtà, già gran parte dell’olio venduto in Italia viene dall’estero. Il vero problema denunciato dalle associazioni dei consumatori sono le frodi: marchi di olio italiano che mescolano nelle bottiglie prodotti che italiani non sono. Spesso senza nemmeno un’indicazione in etichetta che permetta a chi compra di scegliere. Oltre al caso tunisino, condizioni favorevoli per le esportazioni sono state concesse anche al Marocco e all’Egitto per pomodori, arance, clementine, fragole, uva, finocchi, carciofi e altri prodotti. L’aumento dell’offerta sul mercato italiano e l’eccessiva competitività dei prodotti stranieri hanno spesso costretto gli agricoltori a manifestare: i costi per la produzione sono sempre più difficili da coprire e spesso si preferisce non raccogliere affatto. Una distorsione del mercato particolarmente evidente al sud, nelle piantagioni di arance di Calabria e Sicilia, lasciate marcire sotto il peso della crisi.
Il rischio per la salute
Uno degli argomenti utilizzati dagli agricoltori italiani per opporsi alle importazioni di ortaggi e frutta dall’estero è lo scarso controllo sulla qualità dei prodotti in entrata. Soprattutto perchè in alcuni dei Paesi da cui arrivano i prodotti a basso costo è permesso l’utilizzo di pesticidi che in Europa sono vietati. Anche l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare aveva parlato di rischi per la salute. Accusato l’uso di additivi chimici e coloranti soprattutto da parte della Cina. La difficile tracciabilità all’interno di prodotti lavorati in Italia della provenienza degli ingredienti, espone praticamente tutti all’assunzione di cibi contaminati. Anche quando si mangiano piatti venduti come simboli dell’italianità (vedi la pizza), ma assemblati con materie prime provenienti dall’altra parte del globo.
Nemmeno gli allevatori se la passano bene
La Coldiretti a febbraio ha richiamato l’attenzione anche sui danni subiti dal settore agroalimentare a causa dell’embargo russo. La chiusura delle esportazioni di alimenti Made in Italy a causa della politica russa in Ucraina è costata all’Italia la perdita di 240 milioni di euro. Tra i prodotti bloccati ortofrutta, formaggi, carni e salumi. Le stalle italiane ne hanno subito le conseguenze perché la mancata vendita del bestiame ha reso difficile anche coprire le spese per l’alimentazione degli animali.