Tre giorni per trovare una soluzione. Tre i blocchi contrapposti: Nord, Sud ed Est. Non c’è alcuna retorica: in gioco c’è davvero il futuro dell’Unione europea
Settecentocinquanta miliardi di euro. A tanto ammonta il super fondo comunitario progettato da Francia e Germania poi convalidato, ribattezzato (Next Generation Eu) ed espanso dalla Commissione europea di Ursula von der Leyen che l’Europa dovrebbe stanziare per aiutare i Paesi maggiormente colpiti dalla pandemia di Covid. Dovrebbe, appunto. Perché al solito il Vecchio continente si presenta all’appuntamento diviso. Di più, dilaniato. Tre i blocchi portatori di istanze divergenti: da un lato abbiamo le nazioni del Sud (Italia, Francia e Spagna) che sono anche le più colpite dall’epidemia (assieme al Belgio). In quanto tali, chiedono maggiore solidarietà comunitaria perché hanno bisogno di tanti, tantissimi soldi per ripartire ed evitare le incognite di una crisi che potrebbe persino portare al default. Per questo al gruppo si sono accodati anche la Grecia e Cipro, colpite di striscio dal Covid-19 ma comunque in crisi. Sul fronte opposto si trovano invece i Frugal Four: Austria, Olanda, Finlandia e Danimarca. Per loro, portatori di tutt’altra teoria economica risalente al calvinismo, pensare di stanziare soldi comunitari a fondo perduto è una eresia, perché lo sperpero dello Stato è sempre in agguato (specie se è uno Stato meridionale) e infatti sono pronti a dare battaglia. A Est c’è il blocco di Gruppo di Visegrád: Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. Scalcagnate economie sovietiche contrarie al Recovery Fund solo in quanto temono di essere ignorate a favore dei Paesi principali (soprattutto Italia, Francia e Spagna).
Che cos’è il Recovery Fund
Insomma, a Sud ci siamo noi, a Nord i taccagni e a Est gli “sfigati”. In mezzo il tesoretto da 750 miliardi, tutto ancora da accantonare. Ursula von der Leyen, numero 1 della Commissione europea (il “governo” del Vecchio continente) lo ha disegnato così: 500 miliardi a fondo perduto e 250 miliardi di prestiti da restituire. Di questi all’Italia andrebbero 172,7 miliardi di euro: 81,807 miliardi dovrebbero essere versati come aiuti e 90,938 miliardi come prestiti.
Sembra una somma immane – e lo è -, ma se si considera che solo i primi tre decreti emergenziali per fronteggiare il Covid-19 (Cura Italia, Liquidità e Rilancio) hanno aperto nel debito pubblico una nuova voragine da circa 80 miliardi, allora tutto viene visto con una nuova ottica. Anche perché in arrivo c’è un’altra manovra economica che richiederà un nuovo scostamento dal bilancio tra i 10 e i 20 miliardi. Poi c’è la sanità da rimettere a posto, la scuola da adeguare alle norme anti-contagio, la giustizia da fare ripartire… Insomma, i soldi, per quanto abbondanti, rischiano di non bastare.
Viktor Orbán e Giuseppe Conte
In più, come ha ricordato in più occasioni il numero 1 di Bankitalia, Ignazio Visco, non bisogna pensare ai grants come a un regalo: andranno reperiti dall’Ue sul mercato di capitali, quindi dovranno essere restituiti. I circa 82 miliardi non saranno nostri per sempre: li restituiremo “pro quota” (e noi siamo la terza economia dell’Unione), il resto lo metterà il bilancio comunitario. Quanto ai prestiti, si tratterà di un finanziamento agevolato e a lungo termine, a condizioni che non hanno pari sul mercato, con interessi pari allo zero. Esattamente come il MES da 37 miliardi circa per la spesa sanitaria che pure qui in Italia spacca sia il governo (col Movimento 5 Stelle ottusamente contrario), sia l’opposizione (Forza Italia è l’unica favorevole).
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’omologo olandese Mark Rutte
A noi comunque anche i prestiti, benché siano altro debito, convengono perché sono a condizioni molto vantaggiose: prendiamo 1 e restituiamo 1, quasi senza interessi. Emettendo titoli di Stato, come i Btp Italia, paghiamo molto di più. E pagheremo ancora di più se nel prossimo futuro le agenzie di rating dovessero nuovamente tagliare il nostro rating (il giudizio sulla nostra affidabilità di buoni pagatori), come peraltro ha recentemente fatto Fitch, per la quale siamo a un solo gradino dalla spazzatura. Dopo gli investitori istituzionali sarebbero persino obbligati a liberarsi dei nostri titoli di Stato, contribuendo ad alimentare la spirale che porta dritto al fallimento.
Perché si litiga sul Recovery Fund
I Frugal Four non vogliono regalarci nulla. Non per cattiveria, ma perché genuinamente convinti che non siamo affidabili e non faremo le riforme richieste. Scopo del Recovery Fund non è infatti rimandare di qualche tempo il fallimento di un Paese come il nostro, ma irrobustirne a tal punto i fondamentali che sarà preparato ad affrontare le venture crisi economiche. Austria, Olanda, Finlandia e Danimarca temono che i loro soldi possano andare sprecati in regalie e mancette elettorali.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il Cancelliere austriaco Sebastian Kurz
Il 12 luglio il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha infatti detto: «Siamo ovviamente interessati a uno sviluppo positivo del Paese confinante, ma i vicini si conoscono anche bene», ricordando che «In Italia già in passato programmi di stimolo promossi dall’Europa non hanno avuto il successo sperato. Il paese ha ora come prima bisogno di combattere l’economia illegale e ha sistemi poco competitivi, dalle pensioni al mercato del lavoro». E le avvisaglie per Kurz non sono delle migliori: «Se i soldi vengono impiegati non per le riforme ma per i buoni vacanze o per l’aumento incondizionato di un salario minimo, questo non aiuta il miglioramento della competitività».
La sguaiatezza italiana rischia di costarci caro
I rigoristi del Nord non hanno tutti i torti, se si considera che, degli 80 miliardi spesi finora per l’emergenza, 3 sono già andati per nazionalizzare Alitalia, un buco nero che ha già ingoiato negli anni almeno 10 miliardi. La compagnia di bandiera non ha mai preso quota e difficilmente volerà senza problemi nel mondo post pandemico. Altri quattro dovranno essere trovati per nazionalizzare Autostrade, in una battaglia più politica che pratica che gli osservatori europei non capiscono. Soprattutto a fronte del fatto che manleva i Benetton da ogni responsabilità e lascia in capo al Paese tutti gli oneri.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte
In più, il nostro Paese si presenta di fronte agli altri Ventisei senza un piano preciso. Gli Stati generali voluti da Giuseppe Conte non hanno prodotto alcunché. Non c’è una road map, non c’è una classifica delle priorità, non c’è una tabella delle spese, solo dichiarazioni programmatiche “cuore-sole-amore”, ovvero “bellezza-green-digitale”. Come se non bastasse, in troppe occasioni esponenti di spicco del governo, in seno ai 5 Stelle, hanno più volte sbandierato ai quattro venti l’intenzione di usare il Recovery Fund per tagliare le tasse. E a poco sono serviti i richiami di Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia e David Sassoli, presidente dell’Europarlamento che non sia possibile usare una misura una tantum per ridurre la spesa corrente (sarebbe come chiedere un prestito non per comprare una macchina ma per fare benzina), perché i Frugal Four si sono convinti che l’andazzo a Roma sia quello delle misure prettamente elettorali e propagandistiche. Non coi loro soldi. Come dar loro torto?
© Wopke Hoekstra, Twitter
Certo, poi ci sarebbe da ricordare ai Frugal Four che il loro club oggi campa sulla sperequazione fiscale mantenuta in Europa nonostante l’abbattimento delle frontiere doganali. Da loro si pagano meno tasse e questo incentiva gli imprenditori a spostare là i loro capitali. Una concorrenza sleale a tutti gli effetti cui i Paesi del Sud, affamati e disperati, potrebbero decidere, pur di far passare il Recovery Fund, di mettere fine al più presto, portando la discussione in seno alla Commissione e al Parlamento europeo. Insomma, nemmeno ai Frugal Four conviene tirare troppo la corda, pure perché nessuno si può permettere che l’Italia fallisca: parte del nostro debito è infatti nella cassaforte della BCE per via del quantitative easing di Mario Draghi e del PEPP di Christine Lagarde. Inutile addentrarci nei tecnicismi, diciamo solo che per evitare bordate speculative sulla falsarighe di quelle che, nel 2011, rischiarono di farci fallire (ricordate l’ascesa quotidiana dello spread?), la Banca Centrale europea fa giornalmente incetta di titoli di Stato italiani. Secondo l’Osservatorio conti pubblici di Carlo Cottarelli, nel 2019, il nostro debito (134,8% del PIL) era per il 112,2 in mano a privati, per il 22,6 a Banca d’Italia, BCE e istituzioni europee.