«Se, ad esempio, sei un founder olandese pensi subito a diventare un player internazionale. In Italia il ragionamento passa prima dalla dimensione nazionale. Nel prossimo quinquennio mi auguro che cresca l’ecosistema europeo nel suo insieme». Francesco Cerruti, Direttore Generale di Italian Tech Alliance, ci ha aiutato a fare il punto sui traguardi raggiunti negli ultimi tempi dall’Unione Europea, elencando alcune sfide che la attendono nel futuro. A meno di un mese dalle elezioni dell’8 e 9 giugno, che daranno forma al Parlamento e di conseguenza alla prossima Commissione, StartupItalia raccoglie idee, proposte e spunti dagli operatori del settore per un’agenda condivisa.
Rispetto all’AI Act i critici evidenziano che l’UE sarebbe brava soltanto a normare.
Ho un passato da policy maker. Sono un fortissimo sostenitore dell’AI Act, perché ci devono essere standard a livello globale. Mi piace questa terza via europea a metà tra il laissez-faire americano e il controllo al limite dell’ossessivo di altre parti del mondo. È un approccio che presenta rischi, ma il ruolo dell’UE deve essere anche quello di soggetto che globalmente tende a dettare la linea con la speranza che ci siano altri Paesi a seguirla. Peraltro mi sembrano meno interessanti altri tentativi a livello internazionale di regolamentare l’AI.
Cosa potrebbe cambiare nei prossimi cinque anni a livello europeo?
Ci sono stati secondo me segnali positivi. Il documento sul futuro del mercato unico, predisposto dall’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta, è il frutto di molti incontri con gli stakeholder in giro per l’Europa. Spero che si sviluppi sempre più un mercato dell’innovazione pienamente europeo. Anzitutto a livello normativo per quanto riguarda il mercato dei capitali, lo sviluppo di opportunità di exit e per l’attrazione dei talenti. Un altro tema importante emerso con forza è l’equivalenza dei regimi di stock-option. Serve poi armonizzazione i diritti di impresa, fiscale e del lavoro, altrimenti ci sarà sempre squilibrio.
Negli ultimi giorni in Europa si sono registrati round molti importanti. E anche in Italia la situazione sembra normalizzarsi.
Credo che la tempesta sia passata. C’è stato il boom post Covid, durante il quale ci siamo illusi come Paese che da quel momento la crescita sarebbe stata costante. Fino a che non è arrivato un crollo doloroso, dovuto ai tassi, alla crisi in Ucraina, alla ritrosia all’investimento in capitali di rischio. Questo ha provocato un momento difficile nel 2023, ma nel 2024 siamo ripartiti. Non sarà una crescita iperbolica, ma il mercato si solidifica. CDP Venture Capital ha presentato il nuovo piano industriale e mi auguro che entro fine giugno si presenti lo Startup Act 2.0.
Esiste un europeismo politico. Ma non servirebbe anche un europeismo delle startup?
Nel mercato dell’innovazione i player devono essere internazionali. Se sei un founder olandese o israeliano pensi subito a diventare un player internazionale, mentre in Italia il ragionamento passa prima dalla scala nazionale e poi scavalli le Alpi. Il provincialismo dell’ecosistema c’è. Se un ecosistema come il nostro cuba 1,2 miliardi è per forza diverso da quello francese che ne registra 8. Mi auguro che questo in questo quinquennio si sviluppi davvero l’ecosistema europeo.
Parlare di startup significa parlare di lavoro. In Italia avete calcolato che l’ecosistema conta su oltre 15mila occupati. Se il Paese vuole crescere non bisognerebbe far aumentare quel numero?
Servono norme per attrarre talenti. Alcune settimane fa è stata attuata quella sui nomadi digitali. Ma non basta: bisogna costruire la narrazione di un Paese che non sia votato solo a turismo e industria: è difficile che dall’estero si guardi all’Italia come a un luogo dove fare innovazione. Credo sia uno sforzo che richieda ben più di un lustro. Resto ottimista però visto che negli ultimi tre anni, in quanto a capitale investito, il divario tra Italia e altri Paesi come UK e Francia si è dimezzato.