Pizzabo, Cibando, Deliverex, Clicca e Mangia, Foodinho: sono le startup conquistate da società estere (con Just Eat in prima fila). E’ il risiko del food delivery italiano. Una partita ancora da giocare
Troppo grandi per non essere appetibili. Troppo piccoli per mangiare gli altri. Il food delivery italiano cresce, spesso in provincia. E i grandi attori esteri si presentano con offerte che non si possono rifiutare. Presto per dire se è un affare. Ma i casi stanno diventando una prassi: un player internazionale con le tasche piene acquisisce una startup e ne fa il proprio avamposto: da una parte costruire la propria rete da zero è più complesso e costoso; dall’altra il team del “pesce piccolo” si diluisce nella nuova struttura. Con il network di ristoranti e una base di clienti che c’è già e può solo crescere.
Da Pizzabo a Foodinho: il risiko del delivery
L’ultimo caso è quello di Foodinho, conquistato dalla catalana Glovo. Che così entra in Italia senza investire troppo in nuovi asset. Con il fondatore Matteo Pichi che da ceo di Foodinho diventa contry manager di Glovo. È una delle prime mosse degli spagnoli seguite al round da 2 milioni di dollari incassato lo scorso novembre. Un’altra conferma che il mercato italiano è diventato uno dei più interessanti verso cui guardare.
Il percorso di Foodinho e di Pichi somiglia a quello di Cibando, la prima acquisizione di peso nel comparto. Il compratore, l’indiana Zomato, ha assorbito rete e marchio, lasciando al fondatore Guk Kim il ruolo di country manager. Ma da fondatore a manager il passo non è breve. E trovare le misure giuste del nuovo abito è tutt’altro che semplice. Guk Kim, poco dopo la exit, parlava di programmi a lungo termine. Ha lasciato l’incarico dopo un anno per “dedicarsi a nuove sfide”, mentre Zomato cerca di riprendersi da un 2015 difficile.
La parola d’ordine è consolidare. Lo ha fatto Just Eat, il pigliatutto (o quasi) del mercato italiano. Nel giugno 2015 ha inglobato Deliverex e Clicca e Mangia. Più o meno come in una partita di risiko combattuta con scooter e biciclette, la holding britannica ha scelto un partner romano e uno milanese, rafforzandosi con un solo passo nelle due maggiori città del Paese. Perché si tratta di presidiare territori diversi e differenziare la rete in modo da coprire una gamma più ampia possibile, dal ristorante gourmet al kebabbaro sotto casa.
Che il marchio scompaia o meno non è il problema principale. Chiedere per conferma a Pizzabo, la storia di maggior successo finanziario ma anche quella più tribolata del food delivery italiano. Rocket Internet ha sborsato 51 milioni per la startup bolognese, rivendendola un anno dopo proprio a Just Eat. In mezzo un cambio di nome e ritorno (da Hellofood alla denominazione originaria) e l’assunzione di 34 persone. Con il nuovo proprietario sono arrivate la volontà di trasferire la sede a Milano, le dimissioni del fondatore Christian Sarcuni e una vertenze sindacale.
I piccoli muovono dalla provincia
In Italia sono arrivati anche Foodora e Deliveroo, che però hanno deciso di costruendo la propria rete. Just Eat, Zomato e Glovo sono invece passati dalle acquisizioni. Vista la loro forza, la presenza di zone scoperte e l’assenza di aggregazione tra startup italiane, sembra che la domanda debba essere: chi sarà il prossimo?
Foodracers è nato da pochi mesi e punta sulle consegne in provincia. Dalla sua ha un sistema che ordina in ristorante e fa consegnare ai racers. Più o meno come Uber Eats. Funziona con un’app e opera a Bologna, Ferrara, Mestre, Padova, Parma, Pavia, Reggio Emilia, Rovigo, Trento, Treviso, Trieste, Udine, Vicenza. Se le metropoli sono un mercato che inizia a essere affollato, meglio rifugiarsi altrove. Anche se non è escluso il percorso inverso, con i giganti che, dopo aver conquistato le grandi città, guardino con interesse alle più piccole.
Milano resta comunque il centro a cui pochi rinunciano. Moovenda, in barba alla concorrenza dei grandi player, è partita proprio da lì e da Roma. Nel 2015 ha raccolto 650 mila dollari e, a febbraio 2016, si è allargato nella capitale con l’acquisizione di Loveat. MyFood si limita al solo capoluogo lombardo. Bacchetteforchette ha puntato anche su Rimini.
Lontano dai navigli (da Pizzabo in giù) è Bologna la città più attiva. Sgnam ha una rete di 33 ristoranti e opera solo sotto le due torri. Sul suo sito web promette però di ampliarsi, con una foto di New York, un punto interrogativo e una frase: “A breve in arrivo…”.
Stessa casa natale per Cosaordino. È stata fondata nel 2006 a Bologna, scannerizzando e mettendo online i menù dei ristoranti, divisi per zona. Ha puntato sul delivery e all’espansione dal 2012. E si è allargato a Ferrara, Firenze, Lecco, Modena, Torino, Trieste, Verona. Non ha rinunciato a Milano, ma ha fatto una puntata a Catania, uno dei pochi casi di incursione al sud. L’altro è YouEat, a Bari, Verona e (ancora una volta) Bologna.
Come Zomato insegna, anche i padroni del mercato devono essere cauti. Perché un business che rende a Milano non è detto che lo faccia a Perugia. E’ ancor più vero nell’Italia del cibo e dei campanili, dove ogni paesello ha proprie abitudini e propri menù. Ma gli spazi ci sono, sia per geografia (la provincia è fuori dalle grandi reti e il sud lo è da tutto) sia per chi vuole acquisire e non vendere (per ora) come ha fatto Moovenda.
I modelli ibridi (e locali)
C’è poi una nuova classe di startup che puntano forte sulle materie prime. Cioè sulla ricchezza italiana. Se Cortilia, Foodscovery e Ufoody sono modelli di e-commerce che puntano sulla qualità locale, emerge un ibrido tra marketplace e delivery: ti consegnano la cena ma devi cucinarla tu. Fanceat recapita a domicilio i prodotti freschi su misura per realizzare alcune ricette, suggerite da uno chef. Allo stesso modello si ispira Quomi, sulla quale ha puntato Digital Magics. E qui la partita è tutta da giocare.
Paolo Fiore
@paolofiore